La Guerra nelle strade di Casale

Da una testimonianza tratta dal libro "Casale un paese fuori legge" del dottor Scipione Letizia

Anche per Casal di Principe, il fatidico otto settembre 1943, fu salutato festosamente dalla popolazione, con l’illusione ch’era finalmente giunta la pace, e la fine di tutte le sofferenze, provocate dalla guerra, condotta da tutti i belligeranti, in modo crudele e disumano.
La gioia durò poco. I nostri alleati tedeschi, inaspriti dell’avvenimento storico, ci considerarono nemici, alla stregua dei Russi, e di tutti gli altri popoli, che essi strenuamente e crudelmente combattevano, nella speranza della vittoria finale.
Con la defezione dell’Italia al loro fianco, tale speranza che era tenue, sparì addirittura.
Pur tuttavia, continuarono a combattere con l’impeto della disperazione, di chi sa sicuramente della prossima e tragica fine.
Il nostro esercito, abbandonato dal Re, con la fuga di Bari, seguito dal generale Badoglio, si dissolse come nebbia al vento. Come fu triste per me, assistere allo spettacolo del passaggio per il corso di Casal di Principe, di colonne di nostri soldati disarmati, silenziosi, e tristi anche loro, che marciavano lentamente come si fa ad un funerale, guidati da graduati teutonici.
Perché non fecero resistenza? Perché si fecero disarmare nonostante fossero superiori per numero ed armamento? La storia lo dirà meglio di me.
Non vollero sacrificarsi inutilmente, come molti grossi reparti a Cefalù ed in altre zone.
A che sarebbe servito il loro martirologio? Li vedevo passare, muti, a piedi, col capo chino, con tutto il loro carriaggio e certamente con la morte nel cuore, per la grande umiliazione subita.
All’umiliazione del disarmo dei nostri soldati, della loro fine incerta, seguirono rappresaglie, angherie, soprusi, sulla popolazione civile.
Nonostante che Casal di Principe possedesse un vero arsenale di armi d’ogni specie, ed avrebbe potuto combattere contro un reggimento tedesco, subì in silenzio, non per paura, per fatalismo per una forza ineluttabile, tutti i soprusi, tutte le angherie e rappresaglie feroci.
Fortunatamente a capo del comune, fungeva da podestà dopo tante amministrazioni, di inetti e profittatori, un uomo dal carattere, serio ed adamantino.
E.G. persona onesta ed equilibrata. I tedeschi lo tennero al suo posto, con il nome di borgomastro della città.
Se fu possibile evitare guai maggiori, lo si deve alla sua abilità e saggezza; egli doveva provvedere al vettovagliamento del piccolo reparto di tedeschi che presidiavano il paese.
I tedeschi oltre alle requisizioni arbitrarie di animali giovani da macello, come vitelli, maialetti, con il loro comportamento da vandali, incutevano il terrore nella popolazione civile.
Buon per loro, che non disturbavano le nostre donne.
La loro frigidità dei paesi nordici è in contrasto con la virilità del sud.
Se lo avessero fatto, sono sicuro che la popolazione civile, sarebbe insorta come un sol uomo, e li avrebbe cacciati e massacrati, anche a tema di gravissime rappresaglie.
La loro permanenza, con le loro angherie, durò breve nel mio paese; se il loro predominio fosse durato più a lungo, sarebbe successo una carneficina con la distruzione del paese.
Parecchi, elementi del popolo, senza nessuna guida di persone cosiddette della resistenza, intellettuale, che escono fuori, sempre all’ultima ora, già pensavano di riunirsi in squadre armate di almeno venti persone.
Essi erano animati e decisi, di difendersi, da soli, contro le deportazioni in massa dei loro figli, e contro le razzie giornaliere dei loro beni. Le squadre armate si stavano organizzando non per combattere il fascismo inesistente e succube anch’esso degli alleati, ma esclusivamente per difendersi accanitamente e con sprezzo di pericolo contro la prepotenza nemica.
Non vi fu alcun ratto di donna, durante la loro permanenza in Casal di Principe, altrimenti questo atto disumano, sarebbe stato la scintilla per l’insurrezione armata.
Nonostante la quiete apparente, tra gli altezzosi occupanti, e la pacifica popolazione, atterrita, più da bombardamenti indiscriminati degli alleati, che delle azioni guerresche o banditesche di quest’ultimi, accadde verso la fine del settembre del 43, un eccidio raccapricciante. Un giovane sconsigliato, in via Fiume, non certamente per ragioni patriottiche o della resistenza, ebbe la cattiva idea, di tirare un colpo di pistola ad un armigero tedesco isolato. Seguì una notte di terrore. Grida, pianti, si susseguivano senza soste, al crepitio incessante delle mitragliatrici ed allo scoppio fragoroso delle bombe a mano.
Per rappresaglia, la soldatesca aveva mietuto quattro vittime innocenti, e ben diciotto feriti, più o meno gravi all’estremità sud di via Fiume.
Avevano preso di mira cinque o sei casupole di poveri lavoratori, dove sospettavano che dimorasse il presunto sparatore del soldato tedesco. Non contenti della strage degli innocenti, perché vi capitarono anche molti bambini, tra feriti, gli Unni si scatenarono come belve, nel corso di Casal di Principe, per catturare dieci ostaggi, da fucilare il giorno seguente.
In via Fiume, echeggiavano grida belluine e colpi con calci di fucili sui portoni sprangati, Nessuno osava aprire quei forsennati.
Riparati nelle grotte, usate come ricoveri sotterranei, attendevano che la bufera si calmasse, Gli Unni riuscirono ad acciuffare ben dieci ostaggi, tutta la notte, tra i più o meno notabili della popolazione. Tra questi vi capitò anche l’ingegnere G.C.
In quella tetra notte di apocalisse, ogn’uno era in attesa e vigile. Si sospettava che qualcosa di grave fosse accaduto o stava accadendo. In previsione di un mio intervento più per i bombardamenti indiscriminati, che avvenivano ogni sera sul far della notte, nelle adiacenze del Comune, specie allo scalo ferroviario di Albanova, Villa Literno, Aversa che per rappresaglia tedesca, avevo preparato una cassetta di Pronto Soccorso, ripiena di bende, garza, cotone idrofilo ed altro materiale da medicamento.
Attendevo con le armi al piede, come si suol dire, preso dal panico, in quella brutta notte di terrore, più per i miei familiari, che per la mia persona, quando bussarono violentemente al portone. Era già mezzanotte. Tutto era silenzio greve.
Trattenni il respiro. Credevo che fossero tedeschi venuti a prelevarmi. Dopo un istante altri tre colpi col battente, più forte. Il portone era sprangato bene. Era un portone costruito con tavole di quercia nel 1808. Aveva resistito un secolo e mezzo. Sarebbe stato necessario abbatterlo, solo con un carro armato.
Di dentro, sempre silenzio.
I miei familiari, donne e bambini, erano in grave apprensione e preoccupazione. Scesi ad origliare dietro il portone in punta di piede, per non farmi sentire. Udii una voce nota, che diceva all’altro che lo accompagnava: il dottore non sente, sarà nel ricovero. Rassicurato, domandai: Chi è? Sono il brigadiere dei Carabinieri, dottore, aprite, è necessaria la vostra opera, mi fu risposto.
Lo sportello si spalancò presto. Il brigadiere di cui ora non ricordo il nome mi ragguagliò del grave eccidio.
Assicurai i miei che uscivo in compagnia del sottufficiale, e di un altro uomo, per medicare un ferito.
In pochi minuti, quasi di corsa, percorremmo via Cesare Battisti, di fronte a casa mia, al corso, imboccammo via Molino, con la cassetta sulle spalle dell’uomo, che si accompagnava a noi.
Fummo sul luogo della tragedia. Lo spettacolo che si presentò al mio sguardo fu non solo raccapricciante, ma addirittura allucinante. Un gruppo di cinque o sei casupole, quasi catapecchie, erano sventrate dalle esplosioni di bombe a mano e dalle sventagliate di mitragliatrici. Porte abbattute, suppellettili misere in frantumi, e tutt’intorno, sparsi sul pavimento, quattro cadaveri di persone adulte, ed oltre diciotto feriti.
Pianti sommessi, grida di dolore dei più piccini ed anche degli adulti, mi strinsero forte il cuore e mi fecero restare per un momento come inebedito.
Alla fioca luce di alcune candele di cera, che illuminava lugubremente, la macabra scena, e la rendevano viè più terrificante, incominciai la triste operazione della medicazione dei feriti. Ero solo, senza nessun aiuto. I miei ferri chirurgici erano riposti nella cassetta, già sterilizzati. I feriti erano tutti più o meno gravi, e destavano tutti una grande pietà e commozione.
Era povera gente, più che misera. Lo si scorgeva oltre che dall’ambiente ove risiedevano, dalle misere stamberghe, anche dai vestiti a brandelli che indossavano, tutti macchiati di sangue.
Avevano tutti il terrore della morte nel viso.
Cominciai le mie medicazioni dalla più piccina, una bambina di poco più di tre anni di età. Aveva degli occhioni neri, belli, ed era spaventata come un uccellino. Si lamentava, lievemente. Forse non aveva più la forza di piangere forte. Come mi vide, i suoi occhi brillarono, come una luce di speranza. Aperse le braccia, come per essere protetta nelle mie braccia. Dovetti trattenere le lacrime. Non potevo apparire debole.
Gli altri feriti mi invocano a nome, mi supplicavano di far presto. La bambina aveva una ferita d’arma da fuoco alla base dell’emitorace destro, penetrante in cavità, e lesione di organi interni (polmone pleura).
La mia prognosi era riservata. Il cuore le batteva frequente e tremava. La madre giaceva accanto a lei sul pavimento, in una pozza di sangue, crivellata da numerosi proiettili di mitragliatrice. Forse, al momento dell’irruzione dei tedeschi, nella sua casa, doveva avere la bambina fra le braccia, ed erano cadute entrambe, falciate dalla scarica micidiale.
Fino all’alba del mattino medicai alla meglio tutti i feriti. Impiegai tutta la notte. Il parroco del paese, informato da gente pietosa, accorse anch’egli, per portare il conforto della religione sfidando l’ira teutonica.
I feriti acquistarono più fiducia nella vita, più speranza nell’umanità. Ai più gravi somministrò i sacramenti della confessione e comunione. Oh miracolo della fede! Nei momenti più gravi, più difficili, della vita, tu sola rappresenti la luce vera che illumina, la sola ancora di salvezza!
Nella corsia d’ospedale, improvvisata in quelle casette sempre distrutte, subentrò al terrore, alla disperazione, una rassegnazione stupefacente, senza imprecazione, senza esplosione di odio.
Il conforto della fede in Dio, lenisce non solo i tormenti e le pene delle anime, ma anche le sofferenze, i dolori fisici dei feriti, anche gravi.
I feriti guarirono quasi tutti; alcuni rimasero debilitati permanentemente. Uno solo, giovine, bruno, piuttosto robusto colpito al femore destro, con frattura ossea e ritenzione del proiettile, morì all’ospedale di Giugliano, dove segretamente lo avevo fatto ricoverare. Era il presunto sparatore del tedesco che aveva originata la dura rappresaglia. La ferita gli aveva cagionata una infezione settica. Aveva sempre febbre elevata, e la coscia tumefatta gli doleva molto. I tedeschi mi avevano ingiunto di non medicarlo.
Non potevo seguire il loro ingiusto ordine a qualsiasi costo. Ogni mattina, lo medicavo per primo. Per evitare quale possibile reazione tedesca, ma più perché vedevo le sue condizioni aggravarsi, di notte tempo, lo feci ricoverare all’ospedale di Giugliano dove dopo una decina di giorni di degenza spirò.
Anche gli ospedali dell’epoca, oltre ad essere sovraffollati difettavano di medici e medicinali, e quindi agivano in condizioni difficili. I poveri infermi ricoverati in ospedale, specie quelli di provincia, oltre ad essere trascurati dal personale medico deficiente, per la mancanza dei trasporti, non era possibile neppure godere del conforto di qualche familiare.
Per questi motivi, molti rifiutavano l’ospedalizzazione. Non si dava la colpa a nessuno. Alla mancanza dei mezzi, al caos causato dalla guerra perduta, e dalla rabbia dei tedeschi che tutto distruggevano, arraffavano nella loro disperata ritirata.
Ho avuto occasione di rivedere la bambina ferita in quella notte di terrore pochi anni fa. Era diventata una bella signora, forte, ed anche molto simpatica, vestiva bene e s’era sposata e risiedeva a Roma, con il marito, e cinque figli.
I suoi occhi mi sembravano ancora spauriti, ma brillavano di una luce nuova e mi sorridevano. Era venuta da me, per chiedermi un certificato medico. Aveva inoltrata la domanda di pensione di guerra.
Mi riferì che soffriva di una sindrome nevrotica. Forse la ferita riportata in quella tragica notte e lo choc traumatico, avevano contribuito ed erano state le cause determinanti dell’insorgenza di tale malattia. Redassi il certificato e volli rivedere la cicatrice della ferita prodotta dal proiettile per localizzare bene il posto della regione colpita.
Fui molto contento di rivederla felice. Il suo sorriso schietto, i suoi occhi, che mi fissavano, come quella notte di apocalisse, mi ripagarono ad usura del mio dovere compiuto.
I tedeschi avevano il loro accampamento in una campagna nascosta da alti pioppi a 200 metri dalla chiesa dello Spirito Santo alla periferia del paese. In quella località avevano trasportato anche gli ostaggi.
Il paese era in subbuglio per la presa degli ostaggi. Conoscevano la ferocia di tale soldatesca ed ognuno temeva per la sorte dei propri cari. Con il borgomastro in testa, il parroco, il brigadiere dei carabinieri, ci recammo al campo, per implorare la liberazione dei prigionieri. Io portavo al braccio destro il segnale della croce rossa, per far comprendere ch’ero un sanitario. Il borgomastro G.E. era conosciuto ed anche il parroco e il brigadiere. Ci fecero attendere oltre un’ora.
Si presentò prima l’interprete e dopo pochi minuti un capitano di origine austriaca, di cui nemmeno ricordo il nome. Fui il primo a parlare con l’interprete, che traduceva letteralmente le mie parole al capitano. Poiché avevo medicato nella notte ben diciotto feriti, avevo esaurito le mie scorte di medicinali e lo pregavo di volermene fornire per poter continuare la mia opera umanitaria.
Il capitano si rifiutò energicamente e volle sapere quanti erano stati i morti. Risposi: quattro poveri innocenti.
Mi fecero capire ch’erano stati pochi. Aggiunsi che v’erano diciotto feriti gravi, e che non tutti se l’avrebbero cavata. Sembrò addolcirsi, divenne meno duro. In quel momento intervenne una squadra di soldati, più di venti, armati fino ai denti che avanzavano verso di noi al passo dell’oca. Si fermarono di fronte a noi, al comando stentorio di alt di un graduato che li guidava.
Immagino, che il capitano, con quella mossa, con quel plotone di uomini armati di tutto punto, voleva incuterci paura.
Il borgomastro chiese perentoriamente la liberazione degli ostaggi. Il parroco implorò un atto umanitario dopo la rappresaglia di via Fiume. Il capitano austriaco, alto, coi capelli piuttosto rossicci, con una grinta sempre dura, e malvagia quasi senza degnarsi di guardarci, nei nostri volti, c’informava a mezzo dell’interprete del suo diniego.
A questo punto il brigadiere, un bel giovine, con gesto più che generoso, che stupì noi tutti, e forse anche il comandante tedesco, offrì la sua vita, in cambio dei dieci ostaggi.
A tanta generosità, a tanto eroismo, il capitano scattò, come ribellandosi, e gridò sempre il suo no implacabile. A me che lo guardavo corrucciato, fece sapere a mezzo dell’interprete, che i medicinali richiesti, non li avrebbe dati, ma che avrebbe mandato un aiutante di sanità, con una borsa ripiena, per medicare i feriti. Ritornammo dal campo, maledicendo in cuor nostro, la crudeltà teutonica. Nel pomeriggio, apprendemmo la lieta notizia, ch’erano stati liberati tutti gli ostaggi.
Così ritornò di nuovo la calma nel paese la felicità in molte famiglie. Gli eventi bellici precipitavano. Gli alleati dopo lo sbarco di Salerno, dopo aver combattuto duramente con alterne vicende, la loro superiorità numerica, e dei mezzi, ebbe il sopravvento sulla disperata difesa dei tedeschi.
Cacciati anche da Napoli, nelle quattro giornate di lotta, con gli eroici scugnizzi, si ritiravano lentamente per raggiungere il Volturno, dove progettavano poter resistere più a lungo. Durante la loro ritirata, distruggevano tutto ciò che avrebbe potuto servire all’esercito liberatore, con ferro e con il fuoco. Ferrovie, ponti, strade, furono rese inagibili. Massacravano greggi di ovini, armenti, e dettero alle fiamme tutto ciò che non potevano trasportare. Molti tedeschi, in gruppetti di due o tre, penetravano nelle abitazioni civili, e prendevano tutto ciò di prezioso che capitava nelle loro mani, come orologi d’oro, catenine e monili di valore. La popolazione atterrita non reagiva, ed era tutta tappata in casa o nei ricoveri, in trepida attesa dei liberatori.
Nell’uscire per la chiamata di una visita urgente, sul sacrato della chiesa dello Spirito Santo, vidi che v’era piazzato un pezzo di artiglieria, un canno di medio calibro, credo un centoquarantanove prolungato.
Ogni venti minuti, da pezzo usciva un colpo con rumore rombante. Tiravano lungo la strada Casal di Principe Aversa, dove avevano avuto sentore che le truppe alleate sostassero per organizzarsi e ricominciare l’avanzata. Gli alleati rispondevano con un nutrito fuoco di artiglieria. Una casa fu colpita a Casal di Principe in via del Popolo. Vi furono vari feriti ed anche un morto. Dovetti accorrere a medicare i feriti. In quelle circostanze tragiche ero costretto ad intervenire per portare loro un soccorso, specie se grave, ed anche con mezzi di fortuna.
Dopo aver medicato i feriti da scheggia di granata, ritornai a casa.
Il cannone dei tedeschi che si spostava continuamente nelle varie posizioni del paese, forse per dare ad intendere al nemico, che vi fossero molti pezzi piazzati in varie direzioni, finalmente tacque. Alcuni reparti si ritiravano sui Regi Lagni altri in direzione di Castel Volturno.
Con grande costernazione si sparse nel paese la voce che avevano rapito due belle giovani e le avevano condotte al loro seguito nella ritirata. Fortunatamente e con grande gioia di tutti furono subito rilasciate. Il mattino seguente le truppe alleate con carri armati fecero l’entrata nel paese, accolte con manifestazione di gioia dell’intera cittadinanza.
I tedeschi si attestarono sui Regi Lagni. Dalle loro posizioni tiravano con un cannone, forse quello medesimo che vidi a Casale sul sacrato dello Spirito Santo.
Presero di mira il belvedere del palazzo Pignata che colpirono assieme ad altre case. Vi furono solo alcune donne ferite lievemente da schegge. In quelle tristi giornate sempre piene di emozioni, si presentò a casa mia una donna piuttosto giovane di età dal cui aspetto traspariva un dolore piuttosto represso perché sembrava serena e rassegnata.
Portava fra le braccia, un bambino di circa tre anni, avvolto completamente in una coperta. Mi seppe dire soltanto: dottore il mio bambino muore, aiutatemi! Scoppiò a piangere, con singhiozzi che non sapeva reprimere. Osservai il bambino. Sembrava un morticino, con gli occhi chiusi, ed un respiro tenue e superficiale.
I battiti cardiaci erano deboli, molto frequenti. Il corpicino era stato dilaniato ed ustionato da una bomba esplosa, mentre erano riparati sotto un ponte, durante una incursione aerea. Il ponte era crollato, essa con il marito erano rimasti miracolosamente illesi. Il bambino era stato ridotto in quello stato.
Mi strinse il cuore, non solo per pietà, ma soprattutto perché giudicai inutile il mio intervento. Cercai di rincuorare la povera desolata mamma. Essa comprese, si strinse il figlioletto al seno, lo baciò sulla fronte, e disse: Grazie dottore, non lo porterò in ospedale, preferisco che muoia a casa mia.
La visione di quel bambino, di quel corpicino lacerato dalle schegge e tutto ustionato, la visione di una mamma disfatta dal dolore, dal crepacuore, di non poter portare nessun aiuto alla sua creaturina, mi è rimasta impressa nella mia mente.
Al oltre trentaquattro anni dalla seconda guerra mondiale quella scena dolorosa, quella mamma piangente, colla sua creatura agonizzante fra le braccia, non l’ho dimenticata.
Credevamo che con la ritirata tedesca, sarebbero finiti tutti i nostri mali, tutte le nostre sofferenze, sia fisiche che dell’animo, invece fummo amaramente delusi. I tedeschi furono ricacciati ben presto oltre i Regi Lagni, ed oltre il Volturno, dove fecero debole resistenza. Il mio paese già duramente provato, dalla zona operativa, diventò un paese delle retrovie, e brulicava di soldati, specie d’inglesi, canadesi ed americani. Nella mia abitazione, in un basso a pianterreno, fu installata una cucina da campo, per un reparto inglese. La campanella per il pasto, suonava cinque volte, durante la giornata. Avevano ragione quelli che definivano gli inglesi il popolo dai cinque pasti. Notai che era gente gentile, educata, disciplinata, ma anche fredda, insensibile, senza cuore, e senza pietà. Molti di Casal di Principe soffrivano la fame, e laceri, smunti, sostavano all’ingresso del mio portone, nella speranza di avere i residui della mensa dei soldati, per potersi sfamare. Venivano cacciati come cani lebbrosi. I residui dei loro pasti preferivano depositarsi nel truocolo di un nostro maialetto, che allevavamo per uso familiare.
La loro permanenza durò un mese, ed il nostro maialetto divenne grosso e rotondo, perché il truocolo, era sempre ripieno di latte e torte, marmellate, ed ogni ben di Dio.
I tedeschi si erano attestati sulle montagne di Cassino e vi si rafforzarono con tutti gli accorgimenti dell’arte militare. Agli inglesi si sostituirono forti reparti del corso d’Africa francese. Soldati della legione straniera, tunisini, algerini, marocchini con turbanti, con visi olivastri, con tuniche dei beduini del deserto. Erano soldati variopinti, snelli, alti, coraggiosi, e soprattutto molto astuti, ed anche senza scrupoli.
A differenza degli anglosassoni e dei tedeschi piuttosto frigidi, la soldatesca dell’Africa settentrionale, del Congo, della Guinea, tutto un miscuglio di razze dell’Africa nera, di cui era costituita il corpo di spedizione francese, destava preoccupazione, nella popolazione.
I loro istinti talvolta primitivi, cozzavano, si scontravano, contro l’intransigenza della popolazione, nel difendere l’onore, delle donne, anche con la lotta cruenta. Il comando militare francese, s’era accasermato nel palazzo dell’ex podesta’ L.D. al corso Umberto. Le truppe ed i reparti s’erano accantonati un po’ dovunque. La disciplina dell’esercito francese, era rigida ma era difficile mantenere l’ordine nei reparti di soldati dell’Africa. Ogni tanto questa truppa, di colore, commetteva degli eccessi, che impressionavano l’opinione pubblica. Un giorno un beduino essendosi recato nella casetta, alla periferia di Casapesenna, con la cattiva intenzione di avere un amplesso amoroso con una donna, trovò nel lettino, in assenza della madre, una povera bambina di sei anni, che dormiva. Fu tale la libidine di questa belva umana che osò deflorare la piccola innocente, che dovette essere trasportata d’urgenza, in ospedale. L’indignazione fu generale.
Molti beduini rimasero trafitti, caddero nei campi da sconosciuti. Casal di Principe era molto in fermento e preoccupata per il modo di agire delle truppe di colore. Episodi di violenza accadevano quasi tutti i giorni nel centro abitato e specie nella campagna a danno del sesso debole. Una brutta avventura toccò ad una ragazza di vent’anni che s’era recata assieme al padre in campagna per eseguire lavori di sarchiatura del grano. Ad un tratto, mentre la povera coppia, padre e figlia, pacificamente attendevano al lavoro, furono assaliti da tre soldatacci marocchini. Bastonarono il padre, la ragazza l’adagiarono sul ciglio del fosso e dopo averla denudata, le usarono violenza, al cospetto del genitore, che non poteva darle nessun aiuto, per liberarla dalle loro mani.
La fanciulla era vergine e dovette sottostare e soddisfare le voglie di quei tre forsennati per oltre un’ora. Le sue lacrime, le sue grida, erano inascoltate.
Non avevano un senso di pietà. Quando si furono allontanati, padre e figlia, ritornarono a casa atterriti, dalla barbara e bestiale avventura. La madre accompagnò la figlia alla visita medica.
Redassi il relativo referto, il quale fù consegnato ai carabinieri, ma con nessuno risultato positivo. Non fù possibile scoprire i tre malfattori. La povera ragazza per il grande dispiacere, si ammalò. Deperiva ogni giorno più e si spense dopo alcuni mesi, di crepacuore. Quale potesse essere lo stato di animo dei cittadini, dopo questo terribile episodio di violenza, ve lo lascio immaginare. Se la cittadinanza non si ribellò contro la soldatesca è perché fraternizzava con i francesi, ed erano stati accolti come liberatori. Pur tuttavia erano sempre all’erta e cercavano di difendersi con tutti i mezzi, contro tali aggressioni incivili e bestiali.
In un vicolo di via Croce, in una casetta di contadini accadde un altro episodio doloroso, con la morte tragica di un pacifico cittadino, fulminato da una scarica di mitraglia, dalla ronda armata francese, che perlustrava la zona.
S’era sparsa la voce che truppe di colore, specie marocchini ed algerini, avrebbero macchinato di rapire una bella e formosa ragazza. A sera inoltrata, tutti gli abitanti del rione, erano con le armi in pugno, nascosti sui tetti delle case e sulle verande.
La madre della ragazza, atterrita, temendo una carneficina, s’era rivolta al comando francese, per chiedere aiuto, ed evitare il ratto della cara figliuola. Il comando inviò una ronda di sei uomini in perlustrazione sul posto. Una vedetta che era appostata su un abbaino, appenda li scorse lanciò la voce: arrivano! Arrivano! La parola d’ordine giunse fulminea a tutti i difensori del vasto rione, ma più fulminea fu una scarica di fucileria, che durò parecchio. La ronda era stata scambiata per la squadra dei rapitori della ragazza. Si chiarì subito l’equivoco, e la ronda ebbe via libera. L’impresa, terminò lo stesso tragicamente, perché i militari francesi, avendo avvistato il padre della ragazza appostato con un fucile pronto a fare fuoco, lo fulminarono con una scarica di mitraglia. Il giorno seguente, eseguii la visita necroscopica alla presenza del Pretore di Trentola. Non so se qualcuno dei francesi fu ferito o morto, durante la fucileria nutrita dei civili casalesi. Questo episodio servì a calmare i bollori erotici delle truppe occupanti. Si resero conto che la popolazione era decisa a difendersi e possedeva anche i mezzi sufficienti.
Ciò che ho narrato con parole povere e che è realmente accaduto e non è frutto di fantasia, dimostra in modo lampante che quando una nazione, un esercito si arrende, capitola di fronte al nemico, soggiace alla sua mercè, senza misericordia, senza nessuna considerazione umanitaria, morale, civile.
Invece della libertà promessa si diventa un popolo di schiavi, soggetti a tutte le angherie, soprusi, prepotenze.
Si dovrà, a forza di cose, di circostanze, di debolezza, soggiacere alla volontà del nemico, che diventato tracotante, ti umilia e ti rende al rango della schiavitù.
Intanto la battaglia per Cassino diventò più feroce, più accanita, più disperata. Le truppe del corpo d’Africa francese si battevano con coraggio, ma cadevano a migliaia, sotto la macchina guerresca teutonica, che maneggiata con perizia e con inesorabile precisione, li falciava sotto le loro linee, ben guernite, di armi moderne. Le loro scorribande, tra i civili, e le donne del cassinese furono senza volerlo, punite ad usura, dalla difesa disperata tedesca.
Pochi ritornarono alle loro case, nell’altra sponda del Mediterraneo, nell’Africa Settentrionale. Essi non avevano una missione di civilizzazione di popoli arretrati, ma combattevano come carne da macello, per altri interessi internazionali, in regioni i cui abitanti, da secoli, avevano insegnata la civiltà al mondo, colla cultura di uomini illustri, coll’esempio di santi, con l’eroismo del suo popolo.
La battaglia di Cassino durò a lungo, per diversi mesi. La Roccaforte, sulla cui cima, sorgeva il famoso Santuario di S. Benedetto, con annesso convento, sembrava imprendibile. Gli attacchi disperati degli alleati, con mezzi ed uomini preponderanti, si infrangevano miseramente, contro la resistenza tedesca.
A migliaia erano i caduti degli assalitori. A noi giungevano le gesta nefande delle truppe, che si accanivano contro la popolazione civile, e come se volessero sfogare la loro rabbia, contro di essa, gente impaurita, affamata, incapace ed impossibilitata a difendersi.
I tedeschi dettero loro una dura lezione. Li ripagarono senza saperlo, dei loro soprusi, sulla popolazione civile, specie donne. Quei pochi reparti scampati all’inferno di Cassino, che tornavano nelle nostre retrovie, erano tutti provati, stremati dalle fatiche, dal rischio continuo, nei combattimenti che si susseguivano senza tregua, senza interruzione. Arrivavano a Casal di Principe, smunti, con lo sguardo pieno di terrore, quasi laceri, e colla barba irta e folta. Sembravano uomini primitivi, come le loro gesta nefande contro le popolazioni civili avevano dimostrato.
Con l’occupazione dei liberatori, le condizioni economiche di Casal di Principe, migliorarono sensibilmente. La fine delle requisizioni da parte del regime abbattuto, il largo commercio del mercato nero, che si esercitava quasi liberamente e dilagava in tutti i campi, contribuirono all’arricchimento della classe degli agricoltori, che fino a quel momento avevano stentato a tirare avanti con la vita. Colla presenza delle truppe di colore, in paese, continuavano sebbene, in minor numero, gli atti di sopraffazione, di violenza carnale, si soprusi. La cittadinanza reagiva energicamente. Doveva subire le conseguenze della guerra perduta, e dell’occupazione. Durante la loro avanzata verso Cassino le truppe alleate avevano abbandonato un po’ dappertutto dove si accampavano ordigni, esplosivi, polvere pirica, con una confezione simile agli spaghetti, mine e bombe a mano. E’ inutile dire, che tutto questo arsenale micidiale, abbandonato alla rinfusa, costituiva un grave pericolo, per la popolazione civile, specie per i ragazzi che indiscriminatamente raccoglievano nei campi questi oggetti pericolosi, e spesso saltavano in aria con la loro conflagrazione. Mentre era terminata la paura del pericolo tedesco e dei bombardamenti americani, un altro grave pericolo persisteva che mieteva continuamente vittime fra la popolazione. Erano appunto i residuati di guerra abbandonati, senza criterio, senza una logica.
Un giorno, verso il pomeriggio, si udì un forte boato. In località Starza, una frotta di ragazzi, di otto o nove anni, aveva rinvenuto uno di questi ordigni pericolosi. Non so, se si trattasse di una mina, anticarro, o bomba a mano. I ragazzi ignari che la morte era in agguato, cominciarono a giocarci, ridendo e schiamazzando e rincorrendosi. L’ordigno esplose con grande fragore. Un povero ragazzo dilaniato completamente decedette all’istante. Un altro subì la mutilazione dell’avambraccio sinistro. Gli altri più fortunati se la cavarono con ferite da schegge più lievi. Accorsi sul luogo del disastro. Grida, pianti dei familiari, dei ragazzi panico generale, era il quadro tragico della scena. In mezzo a questo spettacolo, notai e tutti con orrore notarono, che un cane mastino affamato, s’era impossessato del moncherino saltato in aria dall’ordigno esplosivo, e si accingeva a divorarlo.
Fu un’attimo. Diversi uomini armati, di fucile, abbatterono di colpo la bestia incauta. Un’altra tragedia ancora più impressionante che m’è rimasta impressa nella mente, accadde pochi giorni dopo. Un reparto di francesi, che si accingeva a partire per il fronte di Cassino, avevano gettato del vestiario inservibile, in un fossato, e l’avevano cosparso di liquido infiammabile, forse per darvi fuoco. Due fratelli in giovanissima età, cercavano di recuperare dal fossato quel vestiari usato per bisogni familiari. Poiché era già buio, accesero un fiammifero, per far un po’ di luce. Una vampata violenta l’investì, trasformandoli in due torce umane. Due militari francesi accompagnarono a casa mia uno dei fratelli ustionati, a piedi.
Era quasi morente, e camminava come spinto da una forza misteriosa. Presentava ustioni di secondo e terzo grado in tutto il corpo, a cominciare dal viso, deturpato, sembrava irriconoscibile e mostruoso. Prevedendo la sua prossima fine, lo medicai in fretta con pomata borica. Il povero infelice mi guardò con occhi di riconoscenza, prevedendo la sua prossima morte. Rimproverai i due francesi di averlo portato a piedi, in quelle condizioni fino a casa mia. Era un morto che camminava, sorretto sotto braccio dai due militari. Essendo stato informato, che v’era anche il fratello nelle stesse condizioni, accorsi sul luogo. Era già deceduto, ed egli giunse cadavere a casa sua. E così pagavamo amaramente le conseguenze della guerra e della sconfitta. In seguito si verificarono altre scene strazianti per esplosioni di questi ordigni guerreschi abbandonati, senza un criterio logico ed umano, senza pietà, per nessuno.
Si parla tanto di umanità, di solidarietà, di alleviare le sofferenze, dei nostri simili, di prevenirle, ma credo che sia solo falsa retorica, un mezzo di esibizionismo, di fronte all’opinione pubblica e non un sentimento vero che nasce solo in poche persone. Sono pessimista? Certamente in tutta la mia lunga professione di medico, esercitata in una zona molto depressa ho dovuto amaramente constatare che la solidarietà umana è un bene così raro che realmente alligna solo in pochi animi eletti.
La carestia, l’epidemia di malattie infettive, la miseria, la fame, si sono susseguite ininterrottamente in mezzo secolo, intervallato da guerre disastrose, stragi, morti, feriti, ebbene tutti si sono levati a deprecare e deplorare questi eventi dolorosi, ma nessuno o solo qualche mano pietosa sconosciuta ha tentato di lenire e medicare qualche piaga.
I casi di violenza carnale, da parte di truppe di colore del Nord Africa, nella nostra zona, si susseguivano, sebbene, pochi venivano a conoscenza del pubblico, e solo quelli più clamorosi.
In via D. una donna onestissima, mamma di quattro figli, rimase vittima di un gruppo di dieci marocchini che la violentarono e seviziarono senza alcun scrupolo. La sorpresero sola in casa. Abbatterono lo sportello del piccolo portoncino, penetrarono nel cortiletto, e fu facile per quei dieci energumeni, ghermirla. Le sue grida disperate echeggiavano tutti intorno.  Nessuno intervenne in suo aiuto. Si trattava di mezzo plotone di uomini armati, e decisi a tutto. Non avrebbero mollato la loro preda, se non dopo un combattimento sanguinoso. La donna era in giovine età, e per giunta, prosperosa e d’una bellezza rara, come se ne riscontrano frequentemente tra le nostre popolane.
I capelli erano biondi, il viso ovale, con due occhi cerulei, dolci, sereni, che rispecchiavano tutta una vita trascorsa onestamente, in dedizione al suo sposo ed ai figli.
L’indignazione fu generale. Fu buon per loro, che dopo qualche giorno, lasciarono la nostra residenza per altri lidi.
Furono sostituiti da truppe americane, in maggioranza negri. Anche costoro commisero molti eccessi e si comportarono incivilmente. Erano addetti al trasporto del vettovagliamento e vestiario per l’esercito. Spesso vendevano il loro carico ai nativi locali. Dettero così un grande impulso al mercato nero. Tutti acquistavano maglioni di lana, coperte da campo, pantaloni, scarpe. Autocarri ricolmi di ogni ben di Dio di vettovagliamento, in scatolame, venivano acquistati dalla popolazione, sempre affamata, per ristrettezze di guerra. Dall’esempio di negri molti teppisti locali, si organizzarono ed armati di tutto punto, cominciarono ad assaltare i treni merci. Svuotavano vagoni interi, e la merce la vendevano rapidamente alla popolazione locale, spesso anche con la complicità dei negri. Dal cattivo esempio di costoro, si istruirono e organizzarono parecchie squadre di assaltatori di treni, specie nel tratto Mondragone Aversa.
Vi furono anche conflitti a fuoco con le forze dell’ordine, con morti e feriti. L’assalto dei treni merci, da parte di bande armate, continuò e fiorì, anche dopo l’andata degli americani, e di tutte le truppe di colore. Era un commercio molto redditizio e con poco rischio. Spiombavano i vagoni contenenti ogni ben di Dio, di notte tempo, nascondevano la merce rubata in un nascondiglio, sicuro, e dopo la smerciavano e vendevano a mezzo di numerose donne specializzate nel contrabbando e presso i ricettatori. Era presa di mira, la stazione di Villa Literno, che in quell’epoca era la stazione, dopo quella di Napoli, più importante, logisticamente e militarmente. In questa stazione, sostavano tutti i treni in arrivo ed in partenza da Napoli-Roma e viceversa, ed anche quelli in arrivo da Foggia-Caserta, che venivano istradati sulla nostra linea ferroviaria, più breve e moderna. La polizia ed altri mezzi di sicurezza dopo la sconfitta erano in sfacelo.
I pirati dei treni agivano quasi indisturbati. I colpi riuscivano quasi tutti. Oramai la mala pianta degli assaltatori dei treni, aveva avuto il sopravvento sulle forze dell’ordine, in via di organizzazione e crebbe indisturbata per vari anni anche dopo la conclusione della pace.
Diversi furono i morti anche nelle nostre zone. Un povero Cristo di Casal di Principe, sorpreso ad asportare da un vagone un secchio di miele, si buscò nella sparatoria, diversi colpi alla schiena, e cadde cadavere sui binari. E    seguii la perizia necroscopica nel cimitero di Villa Literno. Lo riconobbi. Era un bravo uomo, un lavoratore. Non era un ladro, né un bandito, come forse fu scambiato, per un fatale errore.
Mentre osservavo il suo corpo martoriato dai colpi d’arma da fuoco, pensavo che anch’egli era stato una vittima della guerra mostruosa. I banditi veri, erano scappati con la refurtiva. Il povero operaio si attardava attorno al vagone per riempire un secchio di miele e fu colpito nella sparatoria. In mezzo a tanto caos, di tutti i servizi pubblici, a tanta confusione di idee, di propositi, dopo tante miliziani patite, dopo tanto terrore, che i fatti bellici, avevano procurato al mio paese, tuttavia risorse da questo avvilimento con tenacia, con risolutezza, con maggiore energia e volontà.