Il Corredo della Sposa

La  preparazione del corredo, cioè l’insieme dei capi di biancheria e vestiario che una sposa portava con sé nel momento delle nozze, occupava tutta l'infanzia e l'adolescenza di una ragazza; le giovinette si dedicavano a tessere e  ricamare il loro corredo fin da piccole.
La quantità dipendeva dalla situazione economica, ma tutte ci tenevano a fare bella figura. Talvolta le famiglie non esitavano ad indebitarsi pur di preparare un adeguato corredo alle loro figliole per non farle sfigurare con la famiglia dello sposo ma anche con tutta la popolazione, molto attenta a questo tipo di preparativi.
Un corredo di tutto rispetto era quello che si diceva “da 40” (tutti i capi di biancheria erano 40 o la metà di questo numero)  che comprendeva :
  • - 40 camicie ( 20 da giorno-20 da notte)
  • - 40 federe
  • - 40 asciugamani
  • - 20 lenzuola (di cui 4 ricamate)
  • - 20 tovaglie da tavola
  • - 20 mutande

Le famiglie più abbienti non esitavano a far corredi “da 60” o più, testimoniando così il loro status socio-economico.

Il corredo veniva  portato  a casa dello sposo su un carro (o più carri!)  addobbato in pompa magna .
Sul davanti del mezzo veniva appesa, a testa in giù, una coppia di polli che faceva ricordare i famosi “ capponi di Renzo” di cui parla Alessandro Manzoni al capitolo III de “I Promessi Sposi”.
Fino agli anni Cinquanta, per il trasporto si usavano le carrette mentre, con l’avvento dei trattori, si inziarono ad utilizzare trattori e rimorchi o camion. Questi mezzi, riempiti con ogni sorta di oggetti (casse con biancheria ma anche pentolame, oggetti per la casa e vasi con piante e fiori) sfilavano per le strade del paese mostrando a tutti l’ammontare della robba di quella sposa.
In genere le donne uscivano fuori i portoni o le vinelle per ammirare, apprezzare e, ovviamente, criticare (se la quantità risultava all’occhio scarsa!).
All’arrivo della “robba”  nella nuova casa preparata dallo sposo, in genere la suocera o un’altra parente anziana, faceva l’incenso, cioè bruciava grani di incenso su un braciere per augurio e per  allontanare il malocchio e metteva in esposizione il “criscito” (cioè il lievito naturale del pane) per augurare che quella roba potesse crescere ed aumentare nel corso degli anni come il lievito fa nella pasta di pane.
L’usanza di bruciare l’incenso nelle occasioni liete, che il nostro popolo aveva, sembra derivare direttamente dal mondo greco. Gli antichi greci, infatti, facevano la stessa operazione e la chiamavano “ farmacasoteria” usando, oltre l’incenso, anche l’alloro e il biancospino contro i cattivi influssi.
Tutti i parenti e il vicinato accorrevano a fare gli auguri alla famiglia e anche “ad apprezzare” la quantità e la qualità del corredo portato in dote dalla ragazza.

L’oro della sposa, invece, veniva inviato in altro modo, alquanto pittoresco.
Un tacchino veniva rivestito con tutti gli oggetti d’oro appartenenti alla giovane e messo in un cesto (ovviamente legato a dovere!) :  era il famoso“  pint ‘ngannacchet” (tacchino con collane).
Nel giorno della prima pubblicazione, “i pparol”, l’animale veniva portato  a casa dello sposo, da una o più  signore chiamate per l’occasione, insieme ad una torta e a due colombi.
Vedere questa strana “processione” sfilare per le strade del paese era un vero spettacolo!

La dote della sposa poteva comprendere, oltre al corredo e agli oggetti d’oro, altri beni: denaro, animali, vestiario. Per tale motivo, gli sposi sottoscrivevano, davanti ad un notaio, un documento che riportava, in maniera precisa e dettagliata, tutto ciò che la sposa portava in dote .

NOTA: Le notizie raccolte attraverso le interviste riguardano gli anni Cinquanta, quelli immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale anche se, certe usanze, si sono protratte per un ventennio e oltre.