Gli antichi mestieri ormai scomparsi

Nel corso del Novecento nel nostro paese, come altrove, si praticavano vari mestieri oggi scomparsi. Molti di essi, un tempo importanti e richiesti,  sono stati sostituiti dall’idea moderna del “comprare” e non del riparare.
Alcuni  hanno dato origine a “contranomi”(soprannomi) familiari ancora usati , testimonianza del mestiere praticato dalla famiglia o da qualche antenato.

Eccone alcuni:

‘Acconciapiette ( l’aggiustapiatti) 
L‘acconciapiette era un artigiano che, nell’ottica della conservazione degli oggetti, in uso nella prima metà del ventesimo secolo, riparava i piatti rotti, le zuppiere e ogni oggetto in ceramica o terracotta che si era lesionato. Faceva due buchi ai cocci, li legava insieme con un filo di ferro a mo’ di gancio, infine  passava un po’ di colore bianco per coprire la riparazione.
Ammola forbece (l’arrotino) 
L‘ammola forbece  era l’arrotino, un ambulante che, di solito, girava su una bicicletta o   un  carretto  per i vicoli del paese. Anch’egli aveva una funzione importante: aggiustava coltelli, temperini, forbici e simili,  affilando il filo della lama.  Le riparazioni venivano effettuate grazie ad una mola girata da un  pedale.
A capera (la pettinatrice)  
Nei primi decenni  del Novecento  nel nostro paese, mentre  c’erano  i barbieri con i loro saloni, dove gli uomini si recavano per curare barba e capelli,  non esistevano “parrucchieri /e” per signora.
Eppure, anche per le donne casalesi di quel tempo, se appartenenti a famiglie benestanti, avere una chioma ordinata e ben pettinata, era una cosa basilare per il proprio aspetto  . E allora ci si rivolgeva alla capera.
La capera era una sorta di parrucchiera a domicilio.
Si recava nelle case delle signore che richiedevano il suo intervento e “pettinava” i loro  capelli con un pettine a denti strettissimi (‘u pettiniciello) che permetteva di portar via la forfora e le altre impurità. I lunghi capelli ( che non venivano mai tagliati) erano poi intrecciati e raccolti in una crocchia sulla nuca a formare il famoso “tuppo”.
Le signore casalesi degli anni Venti-Trenta usavano pettinarsi tutte in questo modo:scriminatura centrale, trecce e tuppo ( vedi FOTO).Solo le giovinette portavano i capelli sciolti.
La capera, oltre al pettine, usava strumenti semplici  : forcine di osso e di tartaruga, ferretti e pettinini ,“i pettinesse”.
Il detto “sembri proprio una capera“ fa riferimento all’ abitudine delle capere di riportare fatti e confessioni delle altre clienti a cui precedentemente avevano prestato servizio; quindi equivale a dire “sei una pettegola”!
‘U capellero (il capellaro) 
Anticamente, anche per le strade del nostro paese , si aggirava  il capellaro, un ambulante che comprava  capelli per poi rivenderli ai produttori di toupé e parrucche.
Le signore casalesi, quando si pettinavano o venivano pettinate dalle capere, avevano l’usanza di arrotolare i  capelli caduti e conservarli nelle fessure dei muri, delle porte o dei portoni per poi barattarli con il capellaro  in cambio di  forcine per i capelli, aghi, cotone, spille…
Talvolta, le donne in ristrettezze economiche vendevano i propri capelli in cambio di poche monete.  A Casale non c’erano capellari ma venivano da altri paesi.
‘U chianchiere (il macellaio) 
Quante volte  le nostre nonne  hanno detto che dovevano andare dal chianchiere!?
Il chianchiere era il macellaio. La parola “macelleria” deriva dal latino  macellum che, nell’antica Roma,  era  il mercato di carni e altri generi alimentari, in particolare carne e pesce o anche frutta e verdura provenienti da zone lontane.
Il macellarius era dunque uno dei venditori che operava nel  macellum.
 Il termine napoletano  chianchiere, invece, sembra derivare  dal modo in cui quest’ultimo lavorava: i pezzi di carne che  tagliava venivano adagiati ed esposti su di un bancone di legno che in latino si chiamava planca (asse, tavolo).
Planca si è trasformato con il tempo in chianca, che indica l’oggetto sul quale era possibile visionare la merce che si aveva intenzione di acquistare e che contraddistingueva la bottega di colui che, a questo punto, era il chianchiere.
Nel nostro paese c’erano vari chianchieri; il mestiere veniva spesso tramandato in famiglia.
‘U ferracavelle  (il ferracavalli) 
Oggi per mostrare  un cavallo ai bambini dobbiamo portarli allo zoo, al circo, all'ippodromo o in una fattoria. Però è bene ricordare che, fino a un tempo non molto lontano, i cavalli costituivano i mezzi di trasporto più usati.
A Casal di Principe, fino agli anni Cinquanta- Sessanta,  moltissime erano le famiglie che avevano la stalla attaccata all'abitazione. I mezzi di trasporto erano ‘a cassitta (il calesse) e ‘u train (il carro) tirati da cavalli.
Nelle campagne, per i diversi lavori e per il trasporto delle merci venivano utilizzati  i cavalli, gli asini e i buoi.
Il maniscalco o "ferracavallo" era un vero specialista che, oltre a costruire e ad applicare gli zoccoli agli animali, aveva una buona conoscenza sulla loro anatomia, sui loro diversi comportamenti, sul modo di operare durante la ferratura.
 Tanti  anni fa quello del ferracavalli era un lavoro molto richiesto. Già dalla mattina presto si sentiva battere ritmicamente il martello. Questo rumore faceva capire che " il ferracavalli" stava dando alle staffe la dimensione degli zoccoli. Spesso si avvertiva nell'aria quell'odore acre degli zoccoli bruciati dal ferro rovente che veniva applicato su di essi.
Qualche ferracavalli ha operato nel nostro paese fino agli anni Ottanta. (FOTO)
‘A filatrice (la filatrice) 
Casal di Principe, fino agli anni Cinquanta del Novecento,  era un paese dove la canapa rappresentava una delle principali colture . Quasi tutte le donne, quindi, la filavano in casa  dopo aver svolto le faccende domestiche ; alcune lo facevano per mestiere.
La filatrice trasformava la massa informe di batuffoli di canapa in un filo che veniva poi  successivamente tessuto per ricavarne lenzuola, coperte, sottane, ecc….
Per eseguire questo lavoro era necessaria un'ottima preparazione, tramandata da madre in figlia .La donna che filava stringeva sotto l'ascella sinistra una canna che faceva da fermo con una mano, mentre con il pollice e l'indice dell'altra mano tirava un filo da batuffolo avvolto nella cannocchia, una specie di gabbietta a doppio cono che, a sua volta, raccoglieva nell'arcolaio o macinula. Con la saliva si bagnava i polpastrelli ed iniziava ad allungare il filo gradatamente, lo fermava alla punta del "fuso di legno" a forma di cono e, postolo sulla gamba gli imprimeva, spingendolo, un repentino e rapido moto circolare. Il filo , rafforzato dall'azione torcente che garantiva la massima consistenza, veniva fissato al fuso e il prelievo del batuffolo dalla massa continuava.
I rocchetti si infilavano nei “vincoli” e si inserivano poi tra due cordicelle legate a due sedie disposte ad una certa distanza.
Dopo si prendevano in mano contemporaneamente i fili di ogni rocchetto e si avvolgevano intorno a dei chiodi molto lunghi infissi nella parete, sia in senso verticale che orizzontale.
‘U gravunere (il carbonaio) 
Il carbone, fondamentale in passato per alimentare camini, bracieri e ferri da stiro, veniva ricavato dalla legna raccolta nei campi e nei boschi e portato in grossi sacchi tra le strade e le vinelle  da un uomo detto ‘u gravunere”, ovvero il venditore di carbone che girava con un carretto. Qualcuno, nel nostro paese,  vendeva il carbone anche in casa.
Al giorno d’oggi questa  figura è totalmente scomparsa ; l’uso del carbone è stato sostituito da metodi e materiali più moderni e, all’occorrenza, esso viene  venduto in tutti i supermercati in comodi sacchetti di vari pesi.
‘U mannese (il mannese)

‘U mannese era  un artigiano che, grazie alla sua abilità nel lavorare il legno e il ferro,  riusciva a costruire e  a riparare i carri. In pratica, nell’epoca in cui  ci si spostava  per lo più con carri e carrozze, era il costruttore ma anche il meccanico dei carri. Sapeva posizionare i cerchi nella ruota, mettere il grasso per permettere agli assi di lavorare meglio, rivestire di ferro il mozzo delle ruote.
A Casal di Principe ce n’erano alcuni molto bravi e, in genere, il mestiere veniva tramandato in famiglia al punto che un intero ceppo familiare porta, ancora oggi, il contranome di “ ‘i mannisi”
Si comprende facilmente che, con l’avvento delle automobili, questo mestiere è caduto in disuso. (VEDI VIDEO realizzato dall’IT “Guido Carli)

‘U masturasce (il falegname)
‘U masturasce , il cui nome significa letteralmente  “maestro d’ascia” era il falegname; costruiva e riparava : porte, portoni, mobili (madie, sedie, cristalliere, armadi…) .
A Casal di Principe dovettero operare, nei primi anni del Novecento, eccellenti falegnami
se si pone attenzione alla fattura di alcuni mobili, come quello della  foto seguente.
FOTO STIPO e particolari
Questo tipo di armadio, chiamato “stipo” veniva portato in dote dalla  sposa pieno della biancheria del corredo ed era l’unica parte del mobilio che spettava alla sposa ( il resto lo preparava lo sposo).
L’armadio, in legno di pioppo,  è alto 3,40 m e largo 2.00 m circa.
Fu costruito nel primo decennio del Novecento per contenere il corredo di una giovane che si sposò nel 1918 . Sappiamo che il falegname ( di cui purtroppo ignoriamo il nome !) una volta terminato il lavoro,  rivolgendosi alla mamma della sposa disse: “ Ne ho costruiti due di stipi così ma non ne farò più; mi sono costati troppo lavoro!”
Pensiero assolutamente condivisibile se si osserva la grandezza dell’armadio e la particolarità degli intagli !

‘U ‘mbrellere (l’ombrellaio)
‘U mbreller  era un uomo che si faceva vedere in periodi ben precisi, cioè prima e durante le piogge, in genere in autunno e inverno. Girava per il paese gridando: "’U ‘mbreller , ’u ’mbreller".
Portava con sé un'attrezzatura costituita da pinze, filo di ferro, stecche di ricambi, pezzi di stoffe, aghi, filo, spaghi di vario genere.
Oggi questo mestiere ci può sembrare assurdo ma, fino agli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento, quando le cattive condizioni economiche della maggioranza della popolazione permettevano l'acquisto di un solo ombrello per tutta la famiglia e la mentalità del tempo tendeva a  non buttare via nulla che  potesse ancora servire,  gli “ombrellai” erano molto richiesti e riuscivano a  sopravvivere nonostante  le basse tariffe di riparazione. 

‘U ‘ mpagliasegge ( il seggiolare)
Un’antica professione che merita  particolare attenzione è quella  dei seggiolari o ‘mpagliasegge.
I seggiolari, erano coloro che producevano sedie di tutti i tipi e dimensioni intrecciando fili di paglia sottile su un telaio di legno con spalliera. Questo mestiere, anche a Casale, talvolta era svolto dalle donne.
Spesso c’erano anche gli ‘mpagliasegge ambulanti, il cui compito era quello di riparare le sedie di paglia rotte o malandate.


 

 

’U pannazzero (il pannazzaro).

I pannazzari erano gli ambulanti che giravano i mercati vendendo tessuti con i quali si cucivano i vestiti.
In seguito, negli anni Sessanta, questo nome passò ad indicare anche coloro che andavano in giro per le strade  recando con sé la propria merce, che poteva consistere in  biancheria, lenzuola, coperte, asciugamani o anche stoffe più o meno pregiate.
Al pannazzaro si poteva pagare la merce tutta e subito ma il servizio migliore e più ricercato che offriva era quello di poter pagare la merce acquistata a rate, settimanali o mensili, in modo tale da poter spalmare nel tempo spese che altrimenti non si potevano sostenere, quali ad esempio quelle per il corredo nuziale delle ragazze,  che i genitori  cominciavano a predisporre sin dalla loro più tenera età.
Dagli anni Ottanta  molti  pannazzari  iniziarono ad aprire negozi o a cedere il mestiere alle donne :  le pannazzare, fino a pochi anni fa,  sono state parte integrante della vita familiare, poiché a differenza degli uomini, secondo le regole del buon costume del paese,   potevano entrare nelle case nonostante l’assenza degli uomini  e fermarsi a chiacchierare mentre si guardavano i capi del corredo.

‘U piattere (il piattaro)
Il nome “piattere”, oltre ad indicare chi vendeva i piatti (anche questo mestiere, a Casal di Principe, ha dato vita al contranome di una famiglia) veniva attribuito anche ad un ambulante che girava per la strada raccogliendo roba vecchia : mappine, vestiti malandati, scarpe rotte, dando in cambio qualche piatto o ciotola.
Il suo grido, per invitare le donne ad uscire di casa, era proprio: “’U piatter, ‘u piatter, se piglia ‘a robba vecchia”. Il suo passaggio era molto atteso perché permetteva alle massaie di liberarsi di cose inservibili  ricavando qualche oggetto nuovo.

 

 

 



 

‘U putechero (il bottegaio)
Con la parola “puteca” (putéca), che in italiano si traduce “bottega”, “negozio”( indicando nell’uso comune la classica salumeria) nei tempi passati si indicava un negozio dove si vendevano gli alimenti.
Molto diffuso era anche il diminutivo “putechella” che indicava il “negozietto”.
Legato alla “puteca” era la figura del “putecaro”, ovvero il bottegaio, che spesso diventava una figura familiare, che vedevi ogni giorno per comprare gli alimenti giornalieri indispensabili.
Nelle puteche di Casale, infatti, si vendeva un po’ di tutto , come affermano le persone anziane intervistate:
la pasta (spaghetti, linguine, recce…) era  sfusa e veniva acquistata a peso; solo i maccheroni erano in confezioni da 5 chili; la menuzzaglia (pasta mista) ottenuta con i residui della pasta avanzata, costava meno;
le castagne allesse( secche) che venivano cotte con la pasta;

  • i fichi secchi
  • l’olio
  • la sugna
  • la buatta (il  concentrato di pomodoro)
  • i fagioli secchi, i ceci….


Tutti gli alimenti erano “sfusi” cioe’ non confezionati ; venivano pesati e   i clienti dovevano portarsi da casa un grande tovagliolo,”’u sunale”,  per contenerli e portarli con sè; gli alimenti che non potevano essere raccolti nel sunale (buatta, sugna,ecc) venivano consegnati su fogli di carta doppia.

‘U sanzene (il sensale)
‘U sanzene era il mestiere che oggi potremmo definire del mediatore : combinava matrimoni, compravendite di terreni o case, vendita di prodotti agricoli.
Come la maggior parte degli antichi mestieri  è andato man mano scomparendo anche se, in paese, qualcuno svolge ancora questo lavoro.
L’ appellativo “sanzene”  viene spesso attribuito allegramente a quelle persone che, in ogni situazione, riescono a  combinare affari.

  ‘U sapunere: il saponaro

‘U sapunare, il saponaro, è un antichissimo mestiere di Napoli.
Il sapone, di pasta molle, in passato era utilizzato  per lavare i panni ma anche per la pulizia del corpo e dei capelli, usanza sopravvissuta fino ad alcuni decenni fa, quando le grandi aziende hanno invaso il mercato con i propri prodotti.
A Casal di Principe i “sapunere” giravano  il paese barattando il sapone con la cenere prodotta bruciando la legna nei camini.
 “Sapunere” è un altro contranome diffuso in paese, derivato proprio da questo mestiere.

‘U solachianiello: il  ciabattino
Con la parola "calzolaio" (scarpère) si intendeva chi faceva le scarpe da donna e da uomo, gli scarponi, gli stivali, mentre con la parola “solachianiello“(ciabattino) si intendeva chi si occupava della manutenzione o sostituzione di alcune parti della scarpa.
‘U solachianiello, come il termine dialettale suggerisce (composto da sola, suola, e chianella, un tipo di scarpa fatta a forma di pantofola) era, quindi, chi riparava le scarpe, cioè il ciabattino che esercitava la sua professione in una sua bottega. La sua cerchia di clienti era molto ampia perché le scarpe venivano riparate finchè erano inservibili.
L’artigiano utilizzava pochi e semplici strumenti: un po’ di colla, qualche semmenzella (piccoli chiodi) un martelletto, un punteruolo e qualche ago.
Nel nostro paese ce n’erano tanti e le loro botteghe erano sempre affollate; anche questo mestiere, come tanti altri, è andato lentamente in disuso e oggi trovarne qualcuno in paese è divenuto difficile.

 ‘U Stagnere: lo stagnino

‘U Stagnere  riparava utensili, pentole ed altri oggetti di rame che, con il passar del tempo, si erano ossidati, ovvero  riportavano, in superficie, una patina colorata chiamata “verderame” che era nociva.  Lo stagnino copriva l’interno delle pentole con lo  stagno, elemento neutro, che non rilasciava sostanze tossiche e non alterava i sapori degli alimenti. Bisogna, infatti, ricordare che le pentole di un tempo erano quasi tutte in rame . Solo il “pignatiello” e qualche piccola pentola erano in creta.
Per effettuare una corretta stagnatura, l’artigiano doveva seguire un procedimento lungo e minuzioso che  richiedeva  pazienza ed attenzione. Gli stagnini  possedevano una bottega  e qualcuno, oltre a riparare oggetti d’uso domestico, creava anche strumenti utili in casa, come caffettiere, imbuti, secchi e contenitori vari.
A causa del progresso tecnologico anche questo mestiere è scomparso sostituito da macchinari sempre più rapidi per la riparazione o da nuovi oggetti pronti per essere usati e buttati al minimo segno di cedimento. Inoltre,  il rame non viene più usato il pentolame che, oggi, è quasi sempre in acciaio o in materiale antiaderente.
Anche “ stagner” è il contranome di un ceppo familiare casalese.

‘A tessetrice: la tessitrice
Fino agli anni Cinquanta del Novecento la tessitura a telaio  della canapa  era praticata in alcune famiglie di Casal di Principe; c’era  anche chi lo faceva per mestiere.
La donna, seduta dietro un telaio, funzionante con l'uso dei piedi e delle mani, trasformava i fili di fibra in tessuto.
Il telaio era di legno  ed era un attrezzo di origine antichissima, un po' complesso e di una certa grandezza; era costituito da quattro ritti, tenuti insieme da altrettanti raccordi trasversali.
Nella parte bassa, a pochi centimetri del suolo, si trovano due lunghi pedali collegati da corde e da regoli mobili uniti a loro volta a tanti fili provenienti da un asse.
Ogni pezzo di legno era collegato al resto dell'ingranaggio ed era indispensabile al buon funzionamento di tutto l'insieme. Nel telaio vi erano sistemati due rulli: uno era collocato davanti, vicino al pettine e serviva per avvolgere ciò che si tesseva, l'altro era nella parte posteriore a reggere i fili dell'ordito da lavorare.
Grazie alla costanza e alla bravura delle tessitrici si dava consistenza di tessuto alla canapa con la quale veniva realizzata la maggior parte degli indumenti  ma, soprattutto, si preparava il famoso “tuocco di tela”, un tessuto lungo vari metri e avvolto su se stesso, da cui venivano tagliati i pezzi del corredo della sposa : lenzuola, tovaglie da tavola, strofinacci, asciugamani…
C’era una tessitura “liscia” usata per lenzuola, federe, camicie e indumenti intimi ed un’altra chiamata  “ a paparielle” , bellissima e indistruttibile, utilizzata per tovaglie da tavola, strofinacci, asciugamani, cioè capi che dovevano essere molto resistenti per durare nel tempo.

‘A vammana: l’ostetrica
‘A vammana  aveva in paese un ruolo molto importante : era colei  che, nei primi  anni del Novecento e fino a pochi decenni fa,  svolgeva tutte le mansioni dell’attuale ostetrica o del ginecologo.
Fino agli anni Sessanta-Settanta  le donne casalesi non venivano ricoverate negli ospedali o nelle cliniche per partorire  ma partorivano in casa, aiutate appunto dalla vammana, chiamata anche levatrice. A lei spettava il compito di visitare le donne gravide e di farle partorire, portando alla luce nuove vite. Solitamente ‘a vammana era una vera e propria istituzione, una donna a cui affidare se stessi e  la vita dei propri figli; a lei  si rivolgevano le donne in dolce attesa per chiedere aiuto in campo ginecologico ma non solo; spesso  era chiamata in causa anche in vesti di consigliera. A Casal di Principe abbiamo avuto alcune “vammane” che restano nella storia del paese,  per la notorietà del  ruolo che hanno svolto.
Con il passare del tempo questa si è evoluta nel ruolo dell’ostetrica e del ginecologo, specialisti nel settore che operano anche in ambito ospedaliero. Ma l’ostetrica e il ginecologo sono altro dall’antica vammana: è venuto meno quel rapporto di intimità e confidenza che faceva di queste donne persone stimate e rispettate ma anche molto vicine ai problemi e alle gioie del mondo femminile di un tempo.