La civiltà sulle rive del Clanio

È di fondamentale importanza conoscere “l’habitat” nel quale si sono svolti o si svolgono determinati fatti storici, in quanto esso non riveste esclusivamente la funzione di luogo esterno, di scenario naturale, ma contiene in sé i germi della vita sociale, i motivi culturali e le ragioni di fatti e comportamenti, che hanno caratterizzato, ne corso dei secoli, gli ambienti di una determinata zona. Se pensiamo all’habitat, cioè all’entroterra paludoso e malsano, che per lungo tempo caratterizzò la vita del popolo casalese, alla malaria di cui soffrì più di un terzo della popolazione ed alla miseria conseguente ad essa, comprendiamo che si tratta sicuramente di uno sfondo reale in cui inquadrare tutte le vicende successive.
Secondo gli studiosi, i terreni dell’agro aversano, per la maggior parte, sono di origine vulcanica, cosa assolutamente credibile, vista la vicinanza della nostra zona con quelle di Campi Flegrei (i campi del fuoco).
In epoche lontanissime come l’era terziaria e la quaternaria, i vulcani flegrei presumibilmente coprirono gli specchi d’acqua, depositandovi materiale tufaceo quale residui eruttivi.
Il tufo, infatti, è una roccia tipica della nostra zona, ma, dalle nostre parti, assume un calore giallognolo o cinereo, poiché contenente residui di lava e lapilli di pomice. Anche i depositi alluvionali hanno fatto la loro parte in questa zona dall’idrografia difficile e tormentata, in quanto, nel suolo, accanto ad elementi di origine vulcanica, si trovano elementi calcarici e argillosi (le famose “Terre di Creta”).
Per quanto riguarda l’idrografia, ricorderemo il complesso sistema fluviale dal Volturno – Calore, e, soprattutto, i Regi Lagni, che canalizzarono un insieme di corsi d’acqua come il Clanio, raccogliendo il reflusso delle acque, che altrimenti, avrebbero invaso la pianura sottostante. A causa di questa di questa depressione altimetrica, il terreno era sistematicamente invaso  dalle acque fino al ‘600, quando iniziò l’opera di bonifica, con la canalizzazione dell’acqua dei Regi Lagni.
Come ci informa il Santagata (L. Santagata: Casal di Principe e Frignano maggiore. AGEV-NAPOLI p. 9) si tratta di una rete di canali che interessa un territorio di 1500 km² su cui insistono, amministrativamente, 104 comuni, con circa un milione di abitanti, delle Province di Napoli e Caserta, comprendendo tutta la pianura campana, dalle pendici del Vesuvio, al Nolano, all’Acerrano e a Marcianise, fino a tutta la sinistra della bassa valle del Volturno. Eppure anche il Clanio, malgrado il corso accidentato e torrentizio, avevano svolto per secoli una precisa funzione storica, perché, come ci informa il Gallo (Gallo: Aversa Normanna ITEA 1938, p. 5.) “l’unica linea di demarcazione e di difesa era rappresentata dal Clanio, fiancheggiato da basali impenetrabili e acquitrini melmosi”.
Un altro aspetto della geografia della Campania è rappresentato dalla struttura orografica, ossia dal sistema montuoso che occupa i due terzi del territorio. Anche questo sistema, nell’antichità aveva svolto funzioni di protezioni e di confini, (basta pensare al massiccio del Tifata, alle spalle di Capua), influiva sull’umidità e di conseguenza sulla piovosità, caratterizzando pesantemente il clima. Per questo motivo il suolo era molto fertile ed i Longobardi diedero, ad una parte della nostra pianura, il nome di Gualdo o Woldo (dal tedesco= bosco).
Qualche studioso lo ha localizzato tra Aversa, Literno, Pozzuoli e la confluenza del Clanio. In alcuni documenti antichi si trova anche il diminutivo “Gualdellum de Casale”, di cui non saprei determinare con certezza il sito ma, quello che è certo, è che forse un luogo di divertimento ed una riserva di caccia per nobili e sovrani.

Il Clanio (oggi alveo dei Regi Lagni, foto sotto)
La parola Clanio, un fiume di cui si è perso il nome ed anche il corso dopo la bonifica del Regi Lagni, probabilmente non dice assolutamente nulla ai giovani d’oggi, ma, nell’antichità, ebbe un’importanza fondamentale per l’assetto della nostra regione e per gli avvenimenti che in essa si svolsero. Con corso torrentizio, esso scorreva, per la parte superiore, tra Avella e Nola, e passando per Acerra e l’Agro aversano, si gettava nel Lago di Patria, tanto che nell’ultima parte, veniva anche chiamato fiume di Patria o di Literno. Come già detto in precedenza, in esso si riversavano fossati, lagni e rivoli che, quando le acque straripavano, arrecavano notevoli danni al territorio e alla popolazione. Ma non è tutto; in vicinanza della foce, a Patria, anche a causa dei detriti che esso trasportava, le sue acque si insabbiavano notevolmente e il fiume non riusciva a superare lo sbarramento naturale delle dune, per immettersi nel mare. Le acque, allora, si disperdevano nei campi vicini creando la palude. In questo contesto naturale sorse Liternum, come ci ricordano Livio e Strabone. Ma di questo abbiamo anche testimonianze posteriori come, ad esempio, un importante documento in lingua latina, cioè un diploma del re Roberto D’Angiò del 1311( Il documento citato è nel volume di Capasso- Bruno: Il Santuario della Madonna di Briano a p. 7 del 1981) nel quale si descrive non solo il corso del Clanio, ma anche i luoghi della Campania attraverso i quali scorreva. Il suddetto documento, scritto ed emanato per motivi di ordine pratico, disponeva una regolare inchiesta, per accertare in quale misura i comuni (Universitates) inquinassero l’alveo del Clanio, misura sicura secondo la quale, essi erano tenuti a contribuire per l’espurgo. Tra gli altri dovevano contribuire gli abitanti di Caivano, Crispano, Cardito ed altri, nonché quelli di Sagliano, non lontano da Aversa. Secondo il glottologo Aniello Gentile, la parola “Laneum” = lagno, trae origine dal latino “Clanius”, sicchè da Clanius, per successiva deformazione, sarebbe derivato “Laneus” e poi il nostro “lagno”. 
Lo cita anche lo storico A. Gallo, quando parla della Liburia come di «quel tratto di pianura campana che è limitata al nord e al nord-est dal fiumicello Clanium, fiume da allora diviso in più corsi detti “lanei” . Essi costituivano  una serie di canali o trincee naturali, adibiti a difesa sicura contro le invasioni provenienti dalla regione capuana.» (A. Gallo, Op. cit., p.79.)
In tempi più vicini a noi le acque di questo fiume venivano pure usate per la macerazione della canapa, un tempo coltura molto fiorente nella nostra zona anche se tale pratica agricola, rappresentava un’alterazione causa di infezioni e cattivo odore, specie nel periodo in cui la canapa veniva tolta dai vasconi,  chiamati anche essi lagni, e le acque si riversavano  nella foce con grande moria di pesci. «È arrivata la matura!», dicevano i nostri antenati. Conservo, inoltre, personale memoria, per averli visti, degli operai che lavoravano la canapa, i cosiddetti “maciuliatori” che separavano, nei fasci di canapa, la parte fibrosa dalla parte legnosa, i “cannavaccioli”. Era un lavoro estremamente lungo e duro, tanto che, spesso, uomini, donne e ragazzi portavano loro da mangiare e da bere nelle afose ore pomeridiane.
Uno scrittore del IX secolo (Erchemperto, monaco benedettino e storico longobardo ) definisce il Clanio, in latino, lanius; anche l’erudito Michele Monaco da Capua fa derivare proprio da Clanio il termine popolare “lagno”.
Appare assurdo, ma sembra che gli antichi scrittori avessero dato a quel fiumicello un tal nome perché sulle sue sponde fiorivano, abbondanti, le viole. Del resto il popolino aveva mitizzato questo tortuoso e sconnesso corso d’acqua, sostenendo che guarisse dalla scabbia e pietrificasse gli oggetti. Con tutta probabilità, questo effetto che consisteva, per lo più, nel rendere dure le erbe o le stoffe che vi venivano immerse, dipendeva dall’abbondante presenza di calcare nelle acque.  Comunque sia, al di là di tutte le possibili dicerie e leggende popolari, rimango del parere che, anche quelle che riguarda il Clanio, sia una pagina importante della nostra civiltà contadina.